
Roger Federer stabilisce l’ennesimo record, è il più vecchio
numero uno mondiale della storia. Si tratta, però, di un fatto
preciso e misurabile in modo esatto nel trascorso del tempo?
Pare di sì, a quanto evidenziato dai media della divulgazione
generalista capace di diffondere alla velocità della luce la
sintesi dell’impresa. Gli aggettivi sperticati illustrano, qua
e là, la grandezza del fenomeno, tramutato nelle sembianze di
Achille, l’eroe per eccellenza. Il mito leggendario in cui
l’uomo diventa semidio.
Questa operazione, va da sé, facilita la rappresentazione
dell’immaginario collettivo, lo folgora, lo seduce. Achille
l’invincibile è tornato perché il passato si ripresenta sotto
forme diverse, evoluto dalle situazioni ambientali, dalle
circostanze del tempo. Il re dei Mirmidoni è oggi il re del
tennis, non brandisce più la spada ma la racchetta
sottomettendo i suoi rivali.
Eppure, mi chiedo, quanta gloria possono valere le gesta e le
vittorie di un semidio? La necessità generalista di veicolare
un’immagine brandizzata che riassume in sé eroe e impresa
possibilmente con un tweet è un obiettivo noto a tutti, rivolto
a un mercato selvaggio al quale il business ha svenduto anche
l’anima. Viceversa, a mio parere, la cosa sminuisce gravemente
l’opera maestra di questo genio senza tempo contemporaneo.
Sinceramente, penso, Roger Federer merita qualche
ricerca e sforzo comunicativo in più. Dunque, essere
riscoperto sotto nuova luce e, perché no, nei panni di Ulisse:
l’eroe mortale. Finalmente uomo non più semidio con le sue
debolezze e fragilità. Un uomo in grado di superare l’Odissea
della partita, metafora della vita vissuta, per arrivare ad
assaporare l’attimo fuggente della vittoria conquistato con
fatiche e patemi.